martedì 8 febbraio 2011

Immigrati d’Italia - Lavoro e integrazione di Zeffiro Ciuffoletti

Tra il 1860 e il 1973 sono emigrati dall’Italia circa ventiquattro milioni di persone.
Un terzo delle quali si è stabilito all’estero in maniera definitiva. Per cui l’Italia ha conosciuto
tutta la catena della speranza e della sofferenza legate all’esodo, ma non ha dovuto, come altri paesi, preoccuparsi di regolare e disciplinare il fenomeno inverso: quello dell’immigrazione.
Quando l’emigrazione italiana è cessata e l’Italia ha cambiato volto, diventando un paese, che pur fra diversi squilibri, si è collocato fra i paesi più industrializzati del mondo, non era preparata ad accogliere il crescente flusso di genti diverse che approdavano nella penisola dalla terra e dal mare.
In più l’Italia, dopo il “miracolo economico” ha subito una rivoluzione demografica e culturale di dimensioni semplicemente straordinarie. In pochi decenni è diventato il paese più vecchio d’Europa, il secondo al mondo dopo il Giappone con 141 “over 65” ogni cento giovani, con 71 pensionati ogni cento occupati. La famiglia allargata italiana si è liquefatta. Dagli anni Settanta in poi la fecondità in Italia è scesa sotto quello che i demografi definiscono il livello di sostituzione, cioè la soglia di due figli per donna in grado di garantire la stabilità della popolazione. Oggi siamo a poco più di 1,2 per donna in età feconda. Inoltre l’Italia è ai primi posti nel mondo per la graduatoria della speranza di vita: 78,3 anni per gli uomini e 84 per le donne.
I pochi giovani italiani che studiano e rimangono a lungo in famiglia, rifiutano molti lavori e così si aprono vuoti che l’immigrazione in parte riempirà, così come molti immigrati, donne specialmente, anche irregolari, riempiono il vuoto di assistenza agli anziani soli e spesso disabili a cui le famiglie non possono prestare la continuità di compagnia e di aiuto necessario. Né le strutture sociali riescono a fronteggiare la domanda di assistenza agli anziani. Le tesi favorevoli e contrarie all’immigrazione, a volte non tengono conto delle situazioni che spingono a emigrare, oggi rese più forti dall’erosione culturale e sociale, dalle guerre tribali, dalle malattie che intervengono in molte aree di quello che è diventato il “villaggio globale” nel pieno di un processo di sviluppo e di espansione dei mercati d’intensità mai registrata in precedenza. Così come non si considerano tutti i vantaggi che possono derivare dall’immigrazione in paesi “post industriali” a forte calo demografico. Inoltre quello dell’immigrazione è un fenomeno che ubbidisce a leggi complesse, che alimentano cicli di forte intensità che è difficile pensare di disciplinare.
L’Italia, per ragioni geografiche facilmente comprensibili, ma anche per la rapidità dei mutamenti sociali e forse anche per una certa contraddittorietà nella gestione dei flussi, è diventato uno dei paesi ad alta immigrazione sia legale che illegale. Al primo gennaio 2006, gli stranieri presenti in Italia con un regolare permesso di soggiorno erano due milioni e 768mila, pari al 4,7% dei residenti complessivi del paese, mentre per l’immigrazione clandestina non si dispone di dati certi, ma presumibilmente è molto alta.
Due terzi di questi nuovi cittadini, prodotti dall’immigrazione regolare, provengono da 15 paesi di ogni area del pianeta: un terzo è composto da rumeni (271mila), albanesi (257mila), marocchini (240mila) e poi ci sono i cinesi con più di 100mila presenze.
Come ha scritto un noto sociologo (A. Giddens), quasi tutti gli Stati europei vogliono porre dei limiti al numero di lavoratori non qualificati che entrano nei vari paesi e, allo stesso tempo, cercano di incrementare il numero dei lavoratori qualificati. Quasi tutti hanno introdotto delle quote, ma quelle dei lavoratori non qualificati vengono regolarmente superate, mentre quelle inerenti i lavoratori qualificati raramente vengono raggiunte. Tuttavia, se si esclude l’immigrazione clandestina che producefe nomeni gravi in ogni campo della vita sociale e rovina l’immagine dei lavoratori stranieri regolari che vengono per cercare lavoro, l’immigrazione porta benefici economici alla società ospitante. Gli immigrati aumentano l’offerta di manodopera e molti
di loro sono disposti a lavorare anche in settori disagevoli, abbandonati dalla manodopera domestica. Inoltre, il lavoro rappresenta, come sanno tutti gli studiosi dell’emigrazione, un potente veicolo di integrazione sia culturale che sociale, anche se alcune comunità tendono a conservare la loro specifica identità.
Oggi la questione dell’identità può rappresentare un problema ma tutte le identità non
sono né univoche, né immutabili, né quella degli italiani, peraltro così composita, né
quella degli stranieri. Tuttavia, non c’è dubbio che la cultura italiana e la lingua italiana
possono rappresentare nei loro connotati umanistici e cristiani una grande risorsa identitaria così come i valori democratici posti a base della costituzione repubblicana.
Quei principi e quei valori, basati sulla centralità della persona umana e sulle regole dello stato di diritto, costituiscono la base della convivenza, così come il lavoro e l’uguaglianza delle possibilità sono una delle vie più importanti dell’integrazione sociale e culturale. La questione della cittadinanza diventa fondamentale e l’iter per ottenerla dovrebbe essere severo (diritti-doveri), ma anche relativamente chiaro e breve, specialmente per i figli degli immigrati, cioè per quelli che vengono definiti di prima generazione. Molti immigrati, quindi, puntano sul lavoro mirano a costituire imprese familiari per realizzare le loro aspettative e per accedere alla cittadinanza che poi vuol dire accettazione dei valori e dei principi della costituzione.
Negli ultimi anni si sono formate anche in Italia molte piccole imprese, spesso familiari (189mila dati ISTAT, 2005) gestite da stranieri. In particolare queste imprese operano nei settori del turismo, nella ristorazione, nei servizi, specialmente quelli alla persona, nel commercio, nelle pulizie ecc. Tutto questo attesta un desiderio ed un’etica del lavoro di cui gli immigrati sono portatori e che, spesso, manca ai giovani italiani o che è simile a quello che molte famiglie di italiani in un recente passato avevano dimostrato.
Con le rimesse, poi, gli immigrati trasferiscono circa tre milioni di euro (2004) nei paesid’origine, favorendone lo sviluppo e aiutando molte famiglie ad uscire dalla povertà o alimentando il fenomeno del ricongiungimento familiare in senso positivo. Persino la lieve ripresa demografica di questi ultimi anni si deve in gran parte agli immigrati che garantiscono il 10% delle nascite in Italia. Nel futuro dell’Italia, come in quello dell’Europa è ormai inscritto il fenomeno dell’immigrazione con tutti i problemi di cultura e di identità che esso comporta, ma se gli italiani e gli europei riusciranno a guardare con equanimità a questo grandioso fenomeno sociale si potranno trovare le soluzioni politiche più adeguate all’integrazione e alla convivenza civile. Raccontare visivamente l’immigrazione e gli articolati e non lineari processi dell’integrazione, visto che tutti i modelli storici sono stati messi in discussione dall’irruzione delle paure indotte dal fenomeno dell’integralismo islamico, non è facile.
Tuttavia, non c’è alcun dubbio che dare visibilità agli aspetti meno noti e clamorosi dell’immigrazione può rappresentare una sfida positiva. Le stesse ambiguità che caratterizzano
da sempre lo statuto comunicativo della fotografia possono assumere un valore emblematico nel caso dell’immigrazione, che spesso viene rappresentata dai media e dalla televisione nei suoi aspetti più drammatici e dolorosi. Quello che con questo volume di fotografie antiche e recenti si è voluto fare, per superare le ambiguità di cui parlavamo, è di restituire all’immigrazione il suo volto più umano, costruendo intorno all’immagine e attraverso l’immagine, dei “sistemi di racconto” che aiutino a narrare visivamente questo importante fenomeno sociale.

Zeffiro Ciuffolotti

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