martedì 22 febbraio 2011

Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani: indagine sul concetto di nazione

L’unificazione nazionale era un destino obbligato nel 1860? Se guardiamo alla storia mondiale, le nazioni nell’800 erano la forma politica che si era imposta in maniera ineluttabile: tanti luoghi sono diventati nazione tra ‘800 e ‘900. Le radici di questo fenomeno vanno ritrovate nella rivoluzione francese, che ha posto in essere degli elementi inediti: la nazione è lo spazio sovrano del popolo che lo abita ed è un aggregato territoriale caratterizzato dal governo della sua popolazione tramite istituzioni. Inoltre, la nazione è una comunità che si autogoverna in modo autonomo da qualsiasi tipo di pressione esterna.

Prima del 1860, alcune parti della penisola erano soggette al dominio straniero, ma questo non è stato l’unico motivo che ha messo in moto l’unificazione, in quanto vi erano parti di essa non governate da dinastie straniere, quali i territori dei Savoia e dei Borboni di Napoli (perché ormai da tempo perfettamente inseriti nella cultura locale), per cui l’idea della “cacciata dello straniero” era solamente uno degli elementi che avevano portato alla spinta Risorgimentale.

L’altro elemento fondante era il tema dell’autogoverno della comunità e il discorso sulla democrazia, la sottrazione rispetto agli arbitri del re, la sovranità dei cittadini, per cui questi posseggono le chiavi del governo e il potere legislativo.

Tuttavia, non bisogna considerare l’800 come il secolo che ha applicato pedissequamente i dettami della Rivoluzione Francese, dal momento che, in seguito alla Restaurazione, buona parte dell’Europa era tornata ad essere retta da governi di tipo autoritario e dispotico, stile Ancièn Régime: non erano previste elezioni, e le forme di rappresentanza del territorio erano di tipo tradizionale, non solo nei territori dove era presente una dominazione straniera.

Se da una parte vi erano molti movimenti che spingevano verso la liberazione nazionale, dall’altra numerosi stati pre-unitari seguivano una linea piuttosto reazionaria, venendosi a creare una sorta di dialettica continua fra policentrismo e unificazione, in quanto la dimensione regionale, campanilista, era ritenuta soddisfacente. La dimensione policentrica costituiva un elemento forte sia prima che dopo l’unificazione, a causa dell’eredità municipalista della storia pre-unitaria.

Il contrasto tra ideali liberali e ideali democratici, scaturiti dalla Rivoluzione Francese, si manifestava anche in Italia all’epoca della sua unificazione: pochi italiani vengono ammessi al voto rispetto alla comunità immaginata dal Risorgimento. Il compromesso tra liberalismo e democrazia sta proprio nel 2% della popolazione avente diritto alla partecipazione politica: secondo le leggi applicative dello Statuto Albertino, solo chi ha un certo reddito o un determinato livello di cultura ha diritto al voto, equivalente al 7% dei maschi adulti (a partire da 25 anni di età).

Tale ristrettezza del diritto elettorale può essere spiegata dall’alto tasso di analfabetismo (ricordiamo che l’80% della popolazione italiana ottocentesca era rurale), terreno fertile per mediatori “politici” avversi alla causa unitaria, quali i parroci. Risultava quindi conveniente attuare una sorta di autodifesa preventiva: dare le chiavi politiche in mano a pochi dato che, essendo la maggior parte della popolazione sotto l’influenza del clero, il suffragio universale sarebbe stato un pericolo.

Si viene così a delineare uno iato tra i principi enunciati e la realtà concreta: l’unificazione nazionale rappresenta un momento paradigmatico tra una retorica risorgimentale di partenza (gli italiani padroni della nazione, la cacciata degli oppressori, i plebisciti, ecc..) e un’effettività pratica molto modesta a posteriori, che crea una sorta di “vuoto sotto la nazione”, da cui la crisi e il mito del Risorgimento.

Perché si fa l’Italia?

La causa che spinge verso l’unificazione, più che il bisogno stringente di creare un mercato nazionale unificato, va ricercata nell’idea diffusa nell’Europa dell’epoca che gli esseri umani, per potersi presentare in maniera dignitosa nel contesto internazionale, dovevano darsi la forma di nazione: un paese, o era una nazione, o non poteva contare nulla. Se l’Italia non fosse diventata nazione, ciascuna parte da sola avrebbe prodotto molto meno; l’unificazione era inevitabile per garantirle un ruolo all’interno dello scacchiere internazionale.

Fin dal ‘200 il territorio italiano presentava un tessuto sociale urbano molto forte, un’alta concentrazione di città e municipalità sovrane, spesso in contrasto tra loro. Di conseguenza il livello di affezione della popolazione rispetto alla propria dimensione locale è sempre stato molto elevato. L’inevitabile unificazione del paese ha portato ad una difficile integrazione di tanti parti disunite, che ha avuto rilevanti conseguenze sulla coesione civica, sul senso delle istituzioni e dello Stato in Italia: alcune scelte del 1860 hanno avuto effetti di lunga durata fino ad oggi.

PRESO DA: http://www.meridianionline.org/2010/11/26/fatta-italia-bisogna-italiani-indagine-concetto-nazione/

L'Unita d'Italia

Il Congresso di Vienna fu convocato il 22 settembre del 1814 dalle potenze (Austria, Gran Bretagna, Prussia e Russia) che sconfissero Napoleone Bonaparte con l’obiettivo di ripristinare l’assetto politico europeo presente prima delle campagne napoleoniche. A questo congresso parteciparono ben 216 delegazioni provenienti da tutta Europa, tra le quali anche la Francia con il ministro Talleyrand in veste di osservatore. Dominatore indiscusso del congresso fu il primo ministro asburgico Metternich. Il congresso si prefiggeva anche l’obiettivo di dare all’Europa un assetto stabile per impedire le mire espansionistiche della Francia. Vi era un solo modo per garantire la pace duratura in Europa: limitare il potere di ciascuna potenza in modo che nessuna di esse risultasse troppo rafforzata rispetto alle altre.

Due furono i principi alla base del lavoro del Congresso:

1. Il principio di equilibrio, volto ad impedire che uno Stato potesse imporsi sugli altri;

2. Il principio di legittimità con il quale si restaurarono sui troni le dinastie regnanti prima delle campagne napoleoniche.

La tendenza del Congresso fu quella di rafforzare l’assolutismo monarchico e di impedire la diffusione delle idee francesi. Lo spirito della restaurazione fu perciò antiliberale e volto alla negazione del principio di nazionalità (popolo sovrano).

Dopo aver riorganizzato l’assetto politico europeo bisognava preservarlo il più a lungo possibile. Nel settembre 1815, su iniziativa dello zar Alessandro I, Russia. Prussia ed Austria firmarono il documento istitutivo della Santa Alleanza, patto questo che non vincolava i contraenti ad alcun obbligo preciso e concreto. Il testo affermava che i sovrani si sarebbero prestato aiuto e soccorso in ogni luogo e in ogni occasione. In un secondo tempo aderirono alla Santa Alleanza anche altre potenze europee, tra le quali la Francia. Nel novembre del 1815, su iniziativa britannica, fu stipulata la Quadruplice Alleanza tra Gran Bretagna, Russia, Prussia ed Austria, volta ad impedire che l’assetto e l’ordine delineati dal Congresso potessero essere rotti. La Francia venne posta a sorveglianza speciale da parte dell’Alleanza e inizialmente rimase esclusa dal “concerto europeo”.

Nel 1818 il Congresso di Aquisgrana riconobbe la Francia come una potenza e le concesse di far parte del concerto. Nacque così la Pentarchia.

La risposta alla politica antiliberale del Congresso non si fece attendere I gruppi liberali, che chiedevano l’instaurazione di governi costituzionali, erano una minoranza politica e sociale che faceva capo principalmente ad esponenti intellettuali e della borghesia imprenditoriale. Questi gruppi non potendo operare alla luce del sole si organizzarono in società segrete con attività cospirativa clandestina. In Italia la società segreta più famosa era la Carboneria che aveva filiali in tutta la penisola.

Negli anni 1820-1821, in Spagna, in Portogallo e in Italia scoppiarono dei moti insurrezionali promossi da gruppi liberali i quali, però, non ottennero l’appoggio delle masse popolari. Nella penisola iberica questi moti costrinsero i regnanti a promulgare delle Costituzioni. In Italia il 1 luglio 1820 scoppiarono dei moti insurrezionali che interessarono il Regno delle Due Sicilie. I moti furono promossi da Michele Morelli e Giuseppe Silvati, due ufficiali carbonari, e ben presto dilagarono in tutto il napoletano. Alla rivolta si unì anche Guglielmo Pepe, ex ufficiale napoleonico, assumendone il comando. Il re Ferdinando I fu costretto a concedere la Costituzione. Il 15 luglio 1820 la rivolta esplose anche in Sicilia dove il moto assunse, oltre al carattere costituzionale, soprattutto quello separatista. Il governo di Napoli inviò Florestano Pepe il quale, per reprimere il moto, cercò di trattare con i rivoltosi, ma invano. Fu inviato quindi Pietro Colletta il quale sedò la rivolta nel sangue (settembre 1820). Animati dagli eventi accaduti in Spagna e nell’Italia meridionale, le società segrete lombarde e quelle del regno di Sardegna intensificarono la propria attività cospirativa, ma nell’ottobre del 1820 la polizia austriaca arrestò alcuni carbonari tra i quali Pietro Maroncelli e Silvio Pellico. FedericoConfalonieri, capo della setta segreta dei federati di Lombardia, decise di passare all’azione pensando di poter contare sull’appoggio di Carlo Alberto, principe di Carignano, il quale nutriva simpatie per i gruppi liberali. Il moto piemontese fu guidato dal conte Santorre di Santarosa. In Piemonte la guarnigione militare dei rivoltosi raggiunse Torino il 12 marzo. Vittorio Emanuele I abdicò in favore di Carlo Felice il quale, trovandosi a Modena, affidò la reggenza a Carlo Alberto. Questi concesse la Costituzione che sarebbe entrata in vigore a seguito dell’approvazione di Carlo Felice. Il re sconfessò l’iniziativa di Carlo Alberto e minacciò di unirsi alle truppe di Novara, fedeli alla Corona. In Lombardia, invece, i piani di Confalonieri furono scoperti dalla polizia austriaca e l’insurrezione saltò. In aprile Carlo Alberto al capo di un esercito piemontese e austriaco sconfisse i rivoltosi di Santorre di Santarosa a Novara; così si concludero i moti rivoluzionari del 1820-21.

L’Austria che era la più interessata, a reprimere i moti fece convocare a Troppau un congresso dove Austria, Russia e Prussia proclamarono il principio d’intervento. In un Congresso a Lubiana fu deciso l’intervento armato nel napoletano. Il 23 marzo 1821 le truppe austriache abbatterono il regime costituzionale napoletano.

Con il Congresso di Verona fu dato mandato alla Francia di reprimere il regime costituzionale spagnolo che, nonostante l’accanita resistenza dei gruppi liberali, cadde nell’ottobre del 1823. In Portogallo, invece, il regime costituzionale fu soppresso dalle forze assolutiste interne, riorganizzatesi nel frattempo.

Nel 1830 scoppiarono in Europa nuove rivolte che determinarono in Francia e in Belgio una prima rottura negli assetti stabiliti dal Congresso di Vienna. In Francia scoppiò una rivolta popolare contro Carlo X il quale era intenzionato a ripristinare totalmente l’antico regime. La “rivoluzione di luglio” portò sul trono francese il conte Luigi Filippo d’Orleans. La Francia divenne così una monarchia costituzionale. In Belgio il 23 agosto 1830 a Bruxelles la popolazione insorse chiedendo l’indipendenza dall’Olanda. L’intervento dell’Alleanza a difesa del re Guglielmo I fu impedito da Luigi Filippo d’Orleans il quale affermò che per garantire la pace in Europa era necessario non intervenire. Il Belgio divenne così uno Stato indipendente e poté dotarsi di una Costituzione liberale. In Italia l’attività cospirativa della carboneria non si era arrestata, ma era rimasta vitale soprattutto nell’Italia centrale.

Gli eventi parigini spronarono i gruppi liberali all’azione. La carboneria, grazie ad Enrico Misley aveva preso contatti con Francesco IV duca di Modena il quale era intenzionato a costruire uno Stato nell’Italia centro-settentrionale sfruttando i moti liberali. Nella rivolta diretta da Ciro Menotti furono coinvolte l’Emilia, la Romagna e le Marche. L’improvviso cambiamento dell’atteggiamento di Francesco IV portò, però, all’arresto di Ciro Menotti ma non impedì lo scoppio della rivolta. Grazie a questi moti, nei ducati di Parma e Toscana e in alcuni territori pontifici furono instaurati dei governi provvisori; l’esercito dei rivoluzionari, però, non riuscì a resistere alla reazione austriaca. Nell’Italia centrale furono così ristabiliti i sovrani preesistenti. Le cause principali dell’insuccesso di questi moti furono il mancato appoggio sia delle masse popolari che di una grande potenza.

L’insuccesso dei moti carbonari fu dovuto da una parte al metodo di lotta e dall’altra al mancato appoggio popolare . Uno dei protagonisti del movimento nazionale italiano fu Giuseppe Mazzini, membro della carboneria, il quale puntava alla costituzione di un’Italia “una, libera, indipendente e repubblicana”.

Mazzini rifiutava l’idea di un’Italia federale; era convinto che uno Stato centralizzato avrebbe meglio rappresentato l’unità nazionale. Secondo Mazzini il popolo aveva come missione quella di portare a termine l’unità nazionale che non doveva essere realizzata da un sovrano italiano né con l’aiuto di una potenza straniera ma attraverso un’insurrezione popolare.

Nel 1831 Mazzini fondò la Giovine Italia, un’organizzazione clandestina nazionale che doveva incitare alla lotta popolare. La visione mazziniana, però, andava di là dei confini nazionali: da ciò la nascita della Giovine Europa che fu fondata dallo stesso Mazzini nel 1838.

Il metodo scelto da Mazzini per la lotta fu quello del ricorso ai moti insurrezionali che avrebbero innescato poi una sollevazione delle masse popolari preparate all’azione per mezzo della propaganda. I tentativi insurrezionali promossi dai mazziniani si trasformarono tutti in pesanti sconfitte. I motivi di tali insuccessi vanno principalmente ricercati nella propaganda di obiettivi che le masse popolari non recepivano come propri e nell’incapacità di “convincere” le masse.

Gli obiettivi indicati da Mazzini non coinvolgevano la stragrande maggioranza della popolazione costituita da contadini (Mazzini, ad esempio, non affrontava il problema della terra per loro fondamentale).

Tra i tentativi insurrezionali falliti vi è quello dei fratelli Bandiera che, non avendo ottenuto l’appoggio dei contadini calabresi, furono catturati e fucilati dai Borboni.

In Italia, mentre i mazziniani “perdevano colpi” anche a causa del fallimento dei moti insurrezionali, si andavano affermando, guadagnando consensi, i liberali moderati la cui visione prevedeva un processo d’unificazione lento e senza spargimento di sangue: tale processo si sarebbe concluso con la nascita di uno Stato federale.

Nel 1848 l’Europa fu nuovamente investita da un’ondata di moti insurrezionali. In Francia la situazione politica ed economica era estremamente precaria a causa dell’atteggiamento di stampo conservatore assunto da Luigi Filippo d’Orleans. Gli oppositori del sovrano diedero vita alla “campagna dei banchetti”, chiamata così perchè i comizi politici venivano camuffati con banchetti offerti da esponenti antigovernativi. Il tentativo da parte del ministro Guizot di impedire uno di questi banchetti sfociò in una rivolta popolare che portò alla nascita della repubblica. Fu proclamato il diritto al lavoro e furono creati gli opifici nazionali volti ad eliminare la disoccupazione. Fu anche introdotto il suffragio universale maschile. Gli opifici nazionali, improduttivi e troppo costosi, furono ben presto chiusi dalla borghesia moderata, salita al potere, dopo aver fatto sedare nel sangue dalla guardia nazionale una rivolta operaia.

Fu così varata una Costituzione moderata e la Francia divenne una Repubblica Presidenziale. Come primo presidente della Repubblica fu nominato Luigi Napoleone.

I moti insurrezionali interessarono anche l’impero asburgico dove, promossa da studenti e insegnanti, scoppiò nel 1848 una rivolta che da Vienna si diffuse in tutto l’impero per il passaggio all’offensiva dei vari movimenti democratici. Tale offensiva ebbe come conseguenza l’abbandono di Vienna da parte di Metternich prima e di Ferdinando I dopo e la costituzione di governi provvisori a Budapest e a Praga.

Insurrezioni scoppiarono nel 1848 anche in Germania dove si sollevò una rivolta che da Berlino si diffuse nelle altre città tedesche. Fu quindi convocata un’assemblea costituente di Francoforte con lo scopo di scrivere la Costituzione per la Germania unificata.

In Italia la rivolta scoppiò inizialmente a Venezia e a Milano che si ribellarono alla dominazione asburgica.

Anche l’Italia meridionale fu investita da moti insurrezionali. A Palermo scoppiò una rivolta che costrinse Ferdinando II a concedere la Costituzione. La rivolta si propagò anche in altre città italiane costringendo i sovrani a concedere anch’essi la Costituzione.

A Venezia, la rivolta fu guidata da Daniele Manin e Nicolò Tommaseo e portò alla proclamazione della Repubblica di San Marco (17-03-1848).

La rivolta milanese (conosciuta anche come le cinque giornate di Milano) fu guidata da Carlo Cattaneo e portò all’instaurazione di un governo provvisorio costituto dagli insorti.

La vittoria milanese spinse Carlo Alberto (sul trono dal 1831) a dichiarare guerra all’Austria. A lui si unirono anche Pio IX, Leopoldo II e Ferdinando II; la guerra contro l’Austria divenne quindi una guerra nazionale (I Guerra d’Indipendenza 1848-1849). Per i personali interessi di Carlo Alberto l’intesa si ruppe presto. Il regno sabaudo, dopo qualche successo contro l’Austria, fu costretto a firmare l’armistizio con gli austriaci.

Nel 1849 nell’impero asburgico, grazie all’esercito fedele alla corona, fu restaurata la vecchia monarchia.

In Germania Federico Guglielmo IV rifiutò la corona offertagli dall’assemblea di Francoforte e ripristinò con le armi la monarchia abbattuta dagli insorti.

In Italia la fine della “guerra regia" diede inizio alla guerra del popolo. Purtroppo la guerra dei democratici ebbe dimensioni di gran lunga inferiori a quelle sperate da Mazzini.

Nel regno delle due Sicilie i borboni liquidarono la Costituzione prima concessa.

Nello Stato pontificio, a seguito della mobilitazione dei democratici e dei liberali, sorse nel 1849 la Repubblica Romana governata da un triunvirato: Mazzini, Saffi ed Armellini, che intraprese una politica di laicizzazione dell’ex Stato pontificio.

In Toscana, i democratici costrinsero Leopoldo II a fuggire a Gaeta dove già si era rifugiato Pio IX. Anche la Toscana fu governata da un triunvirato: Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni.

Mazzini, a seguito della situazione favorevole determinatasi, voleva accelerare il processo di unificazione, ma trovò l’opposizione di Guerrazzi.

Carlo Alberto, timoroso per la caduta di prestigio della monarchia sabauda, piuttosto che sottostare alle pesanti condizioni austriache imposte con la pace, decise di continuare la guerra. Una nuova sconfitta lo portò ad abdicare a favore di Vittorio Emanuele II.

Intanto l’esercito austriaco occupò la Toscana consentendo a Leopoldo II di riprendere il potere.

La repubblica Romana cadde per l’intervento di Luigi Napoleone erettosi a difensore dei cattolici per accappararsenel’appoggio.

L’ultima a cadere, dopo una lunga resistenza all’assedio degli austriaci, fu la Repubblica di Venezia.

L’unico stato italiano che non subì moti rivoluzionari fu lo Stato sabaudo. Alla guida del governo sabaudo vi era Camillo Benzo di Cavour, per il quale il regno di Sardegna, stringendo alleanze con potenze straniere, doveva cacciare l’Austria dalla penisola per poter costituire un vasto regno dell’Italia Settentrionale. Tale convinzione portò Cavour ad inviare in Crimea un contingente sardo; ciò consentì al regno sabaudo di partecipare al Congresso di Parigi dove Cavour sollevò la questione italiana.

Di fronte all’ennesimo insuccesso dei mazziniani nella spedizione di Sapri, Cavour, nell’incontro segreto di Plombiers, decise di allearsi con la Francia. Secondo gli accordi stipulati, Napoleone III (Luigi Napoleone diviene imperatore nel 1852 con tale nome) sarebbe entrato in guerra a fianco del regno sabaudo solo se quest’ultimo fosse stato attaccato dall’Austria. In cambio la Francia avrebbe ricevuto Nizza e la Savoia. Cavour, per provocare l’Austria, fece disporre truppe sabaude lungo il confine con i territori austriaci.

Dopo un ultimatum austriaco respinto da Vittorio Emanuele II, l’Austria attaccò il regno di Sardegna (II Guerra d’Indipendenza). Come da patti la Francia si schierò con Vittorio Emanuele II. Dopo una serie di vittorie delle truppe sardo-francesi, Napoleone III propose all’Austria un armistizio in quanto nell’Italia centrale esponenti filopiemontesi, saliti al potere, chiedevano l’annessione al regno sabaudo. Il 12 luglio 1859 a Villafranca fu siglata la pace tra Francia ed Austria. La pace prevedeva la cessione della Lombardia da parte dell’Austria alla Francia, la quale successivamente la consegnò all’Italia, e la restaurazione dell’ordine nell’Italia centrale. Nel 1860 nell’Italia centrale si tennero dei plebisciti con esito favorevole all’annessione al regno sabaudo. Terminava così la prima fase dell’unificazione pensata da Cavour.

A questo punto entrarono in scena i mazziniani con l’organizzazione di una spedizione di mille volontari guidati da Giuseppe Garibaldi, avente lo scopo di fare insorgere le masse popolari meridionali. La spedizione partì da Quarto il 5 maggio 1860.

Garibaldi, sbarcato in Sicilia, piegò subito la resistenza delle male armate truppe borboniche e, in nome di Vittorio Emanuele II, vi proclamò la dittatura. Dopo aver sedato nel sangue un moto contadino contro i proprietari terrieri iniziò la risalita verso Napoli. Garibaldi sbarcò in Calabria in località Rumbolo di Melito di Porto Salvo (19 agosto 1860) che costituisce la parte più a sud dell’Italia continentale. Nelle acque del mar Ionio, antistanti la dimora che scelse per le proprie truppe (oggi denominata Casina dei mille e che al tempo apparteneva ai marchesi Ramirez), era visibile sino a poco tempo fa la nave garibaldina “Torino” arenatasi durante lo sbarco frettoloso delle truppe, avvenuto sotto il fuoco nemico delle navi borboniche e la resistenza di uno sparuto gruppo di fedeli ai borboni prontamente messo a tacere. Nella Casina dei mille Garibaldi dimorò un paio di giorni per far riprendere fiato alle sue truppe, sopportando anche l’attacco delle navi borboniche che non ebbe però alcun esito. Di tale attacco è testimonianza una palla di cannone ancora oggi visibile sul muro di un balcone della casina, mentre lo sbarco di Rumbolo è ricordato da una stele eretta nel punto esatto dello sbarco.

Da Melito di Porto Salvo i mille risalirono attraverso l’Aspromonte sino a Napoli dove entrarono il 7 settembre 1860.

Intanto, per paura che Garibaldi potesse giungere a Roma, Cavour inviò truppe piemontesi in Umbria e nelle Marche, occupandole. Le truppe quindi si misero in marcia verso Napoli pronte a scontrarsi con Garibaldi il quale però non era interessato a combattere contro di esse. Questi preferì attendere l’arrivo del re.

Nel frattempo nell’Italia meridionale si tennero dei plebisciti per l’annessione al regno sabaudo, che ebbero esito favorevole.

Il 26 ottobre 1860, con lo storico incontro di Teano, Garibaldi consegnò a Vittorio Emanuele II tutti i territori da lui liberati. In epoca immediatamente successiva anche le Marche e l’Umbria furono annesse al regno sabaudo per mezzo di plebisciti. L’unificazione nazionale prendeva così corpo, anche se essa non era ancora completa perché il Lazio rimaneva territorio papale e il Veneto era in mano austriaca. Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II era proclamato re d’Italia.

Con lo scoppio della guerra austro-prussiana del 1866, l’Italia si schierò con la Prussia con il premeditato intento di sottrarre il Veneto all’Austria (III Guerra d’Indipendenza). La guerra ebbe esito negativo per l’Italia, ma, grazie alle vittorie prussiane e alla pace di Vienna, il Veneto fu annesso al regno d’Italia.

Per il completamento del processo d’unificazione mancava soltanto l’annessione dello Stato pontificio, operazione questa di difficile attuazione in quanto Pio IX non era in alcun modo intenzionato a rinunciare al potere temporale. Di fronte a questo rifiuto del papa, Garibaldi e i suoi volontari tentarono per due volte di occupare Roma ma Napoleone III, protettore dello Stato pontificio, glielo impedì. Con la caduta di Napoleone III a seguito della guerra franco-prussiana, truppe italiane guidate dal generale Cadorna entrarono a Roma dopo essersi aperti un varco presso Porta Pia (20 settembre 1870), ponendo fine al potere temporale del papa. Nel luglio 1871 Roma divenne la capitale del regno d’Italia.

L’unità d’Italia si era finalmente realizzata.

“Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”

Questa frase, coniata da Ferdinando Martini nel 1896 per sintetizzare un concetto di Massimo D’Azeglio (predecessore di Cavour alla guida del governo sabaudo), intendeva mettere in evidenza l’importante e difficile compito che spettava al nuovo governo del Regno d’Italia. L’Italia unita era un paese di 22 milioni di abitanti ed era molto arretrata sia socialmente che economicamente. L’80% della popolazione era analfabeta, l’economia si basava ancora sull’agricoltura e vi era un enorme divario tra Nord e Sud che originò la questione meridionale. Il nuovo governo, quindi, oltre a risolvere i problemi economici dell’Italia, doveva anche cementare un’identità nazionale ancora inesistente. Questa assenza di identità nazionale si manifestò nell’Italia meridionale con il brigantaggio e con rivolte popolari per la mancata distribuzione delle terre ancora nelle mani dei latifondisti. A questi problemi vanno aggiunti la maggiore pressione fiscale del nuovo governi italiano rispetto al precedente borbonico e l’introduzione della leva obbligatoria sconosciuta nell’Italia meridionale.

PRESO DA: http://moterma.altervista.org/Tesina/Storia.html

Il 2 Giugno 1946, nasce la Repubblica Italiana

La Repubblica Italiana nacque il 2 giugno 1946 in seguito ai risultati del referendum istituzionale indetto per determinare la forma dello stato dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Storia della REPUBBLICA:

Si trattò di un passaggio di evidente importanza per la storia dell'Italia contemporanea, dopo il ventennio fascista ed il coinvolgimento nella guerra. Si svolse in un clima di esasperata tensione, e rappresenta un controverso momento della storia nazionale assai ricco di eventi, cause, effetti e conseguenze, che è stato anche considerato una rivoluzione pacifica dalla quale si produsse una forma di stato poco differente dall'attuale. La nascita della Repubblica fu accompagnata da polemiche di una certa consistenza circa la regolarità del referendum che la sancì. Sospetti di brogli elettorali e di altre azioni "di disturbo" della consultazione popolare tuttora non sono stati completamente fugati dagli storici e costituiscono oggetto di rivendicazioni da parte dei sostenitori della causa monarchica. L'Italia era una monarchia ereditaria: al capo di casa Savoia spettava il titolo di re d'Italia; nel 1946 divenne una repubblica per effetto del detto referendum istituzionale, e fu poco dopo dotata di un'Assemblea costituente al fine di munirla di una costituzione avente valore di suprema legge dello stato repubblicano, onde sostituire lo Statuto albertino, sino ad allora vigente. Prima del cambiamento vi era infatti una monarchia costituzionale fondata sullo Statuto (anche se durante il fascismo le garanzie sui diritti previste nello Statuto erano state di fatto modificate in senso restrittivo).Il 2 giugno 1946, insieme alla scelta sulla forma dello stato, i cittadini italiani (comprese le donne che votavano per la prima volta) elessero anche i componenti dell'Assemblea costituente che doveva redigere la nuova Carta Costituzionale e che fino all'elezione del primo parlamento della Repubblica svolse anche le funzioni di assemblea legislativa.

Prima del referendum:

Malgrado la prima metà del Novecento fosse profondamente segnata dall'esperienza fascista, l'Italia moderna si era avviata verso un percorso di democratizzazione da molto tempo. La stessa concessione dello Statuto (e delle altre riforme albertine), insieme all'allargamento della base elettorale (inizialmente elitaria, poi gradualmente ampliata sino alla soppressione del requisito di censo - ma sempre solo maschile, sino al referendum) si univa ad un crescente spessore della ricerca della certezza del diritto, argomento giuridico considerato importante strumento di parificazione dei cittadini nella comune e "certa" sottomissione alla comune e "certa" legge.Anche il dibattito politico, sul principio del Novecento, era sorprendentemente aperto, consentendo una buona libertà di circolazione delle idee ed una buona provvista di nutrite polemiche parlamentari che, nonostante la selezione d'accesso ai seggi parlamentari, risultavano ben vivide ed affatto sincere, come testimoniano alcune memorabili pagine del Mazzini, radicalmente inalberatosi sulle sperequazioni sociali regionali e sui malesseri "viziosi" del sistema statale. L'opposizione parlamentare usava una buona libertà di critica, sebbene non abbia mai preteso di "disturbare" gli assetti di sistema e si sia astenuta dal propugnare con intenzione convinta alcuna modificazione eversiva o rivoluzionaria.Rispetto ad un'evoluzione fisiologicamente "inevitabile", e rispetto anche a quanto accadeva negli altri meno giovani stati nazionali, l'Italia si distingueva per una certa apertura culturale e ideologica, non troppo compressa da una successione di governi di impronta conservatrice. Vi si combatterono, insomma, piccole guerre a fini modestamente coloniali, ma anche grandi polemiche ideali. In relazione ai tempi, ed a quanto riscontrabile all'estero, la condizione democratica pareva incontrare in Italia un terreno non sterile sul quale svilupparsi, non patendo a causa di pregiudiziali, nè di altre chiusure preventive. La forma dello stato, in sè, non assorbendo se non uno degli aspetti della democraticità , non fu mai discussa nella pratica nemmeno dai politici repubblicani, limitandosi la questione (ma ancora va ricordato che queste erano le possibilita concrete a quei tempi) ad elaborazioni dottrinali più filosofiche che non costituzionalistiche.

Lo Statuto albertino e l'Italia liberale:

La costituzione dell'Italia prima del 1946 era lo Statuto albertino, promulgato nel 1848 da Carlo Alberto, allora re di Sardegna. A suo tempo, la concessione dello Statuto aveva rappresentato un notevole avvicinamento della (allora) piccola monarchia sabauda verso le istanze pre-risorgimentali, e costituiva un passaggio reputato necessario, sebbene poi svolto in forme ben valide, prima di volgersi alla costruzione dello stato nazionale.Nel 1861, quando in seguito all'Unità al Regno di Sardegna successe il Regno d'Italia, lo statuto non fu modificato (non era prevista una revisione costituzionale) e restò dunque il cardine giuridico al quale si sottometteva anche il nuovo stato nazionale. Prevedeva un sistema bicamerale, con il Parlamento suddiviso nella Camera dei Deputati, elettiva (ma solo nel 1911 si sarebbe giunti, con Giolitti, al suffragio universale maschile), e nel Senato, di sola nomina regia. Fattore fondamentalmente innovativo di questa Carta era la rigida definizione di alcune delle facoltà e di alcuni degli obblighi delle istituzioni (re compreso), riducendo la discrezionalità delle scelte operate dalle alte cariche dello stato ed introducendo un abbozzo di principio di responsabilità istituzionale.L'equilibrio di potere tra Camera e Senato era inizialmente sbilanciato a favore del Senato, che raccoglieva la buona nobiltà e qualche grande industriale di buone frequentazioni (lo Statuto prevedeva delle categorie fisse fra le quali il re poteva eleggere i senatori). Via via la Camera assunse maggiore importanza, in funzione sia dello sviluppo della classe borghese e del consenso che questa doveva sempre più necessariamente porgere alla classe politica, sia della necessità di produrre copiosa normativa di dettaglio, cui meglio poteva contribuire un ceto politico proveniente dalle classi a contatto con l'applicazione quotidiana di quelle norme.Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, l'Italia poteva essere annoverata tra le democrazie liberali, benché le tensioni interne, dovute alle rivendicazioni delle classi popolari, insieme alla non risolta questione del rapporto con la Chiesa cattolica, per i fatti del 1870 (presa di Porta Pia e occupazione di Roma), lasciassero ampie zone d'ombra.

Il fascismo E Vittorio Emanuele III:

La conclusione della guerra, nel 1918, vide le tensioni all'interno del Paese cambiare di ragioni, allargandosi ad argomenti sociali: da una parte stavano le classi popolari, organizzate dai partiti di orientamento marxista, che spingevano per l'ottenimento di maggiori diritti anche sulla spinta della rivoluzione russa, dall'altra si stringevano invece le componenti liberali e conservatrici, che temevano appunto un'evoluzione in tal senso della società italiana.In questo contesto si inserì il movimento nazionalista, fondato da Mussolini, dei Fasci italiani di combattimento che in breve alle tematiche della vittoria tradita avrebbe unito, sotto la spinta e l'appoggio dell'alta borghesia sia terriera che industriale, quelle della contrapposizione alle idee della sinistra. Nel 1922, in occasione della Marcia su Roma, il re Vittorio Emanuele III rifiutò di decretare lo stato d'assedio predisposto dal primo ministro Luigi Facta e, contro la prassi, designò Benito Mussolini come primo ministro.La nomina, seppur non contraria allo Statuto, che attribuiva al re ampio potere di designare il governo, era appunto contraria alla prassi che si era instaurata nei decenni precedenti. Il fascismo avrebbe presto cancellato molte libertà e molti diritti civili, instaurò la dittatura e ruppe, per origine e per seguito, la tradizione parlamentare (e per questo è considerato una rivoluzione).La posizione del cittadino al cospetto delle istituzioni vide durante il fascismo una duplicazione della sottomissione prima dovuta al re, ed ora anche al duce, e si fece più labile la condizione di pariteticità fra i cittadini (e fra questi e le istituzioni), allontanandosi da principi democratici già raggiunti. La rappresentanza fu fortemente (se non assolutamente) condizionata, vietando tutti i partiti e le associazioni che non fossero controllate dal regime (eccezion fatta per quelle controllate dalla Chiesa cattolica, comunque soggette a forti condizionamenti), giungendo a trasformare la Camera dei Deputati in Camera delle Corporazioni, in violazione dello Statuto. In tutti questi anni, da parte del potere regio non vi fu alcun esplicito tentativo di opporsi alla politica del governo fascista.

Dal 1943 al 1944:

Il 25 luglio del 1943, quando la guerra a fianco della Germania ormai volgeva al peggio, Vittorio Emanuele III, in accordo con parte dei gerarchi fascisti, revocò il mandato a Mussolini e lo fece arrestare, affidando il governo al maresciallo Pietro Badoglio. Il nuovo governo iniziò i contatti con gli Alleati per giungere ad un armistizio. All'annuncio dell'armistizio di Cassibile, l'8 settembre 1943, l'Italia precipitò nel caos. L'esercito nel suo complesso, privo di ordini, si sbandò e venne rapidamente disarmato dalle truppe tedesche; Vittorio Emanuele III, la corte e il governo Badoglio fuggirono da Roma. Il governo Badoglio, pressoché in toto un "governo del Re", ebbe la sostanziale funzione di traghettare l'Italia verso una resa, la meno svantaggiosa possibile, agli Alleati, e le modifiche costituzionali che operò (quantunque non difficili da prevedere) furono principalmente quelle pretese dai precedenti avversari. Iniziòdunque lo smantellamento delle strutture istituzionali del regime, ma senza fretta.Le istanze democratiche non furono infatti oggetto di immediata grande attenzione, oltre alle richieste, talvolta propagandistiche, degli Alleati. La guerra, del resto, non solo continuava, ma si era trasformata anche in guerra civile, con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana e la divisione della Penisola in due territori antagonisti, uno occupato dalle forze alleate, l'altro da quelle tedesche, con commistione logistica degli uomini armati dell'uno e dell'altro fronte. Nella drammatica contingenza, in realtà , la gestione civile fu segnata da una pesante impronta militare in entrambi i territori, ed in tutta la Penisola si riscontrò l'applicazione di metodi da stato di polizia, malgrado per l'ordine pubblico non si facesse altro, al Nord come al Sud, che sparare qua e là qualche poco dibattimentale pallottola. Da un punto di vista giuridico, che però non rivestiva carattere di impellenza in contesti armati, va notato che entrambi i sistemi, in qualche modo operanti sui rispettivi settori della nazione, si trovavano in condizione di sospensione del regime costituzionale: al Sud perché in riorganizzazione, con la demolizione in corso delle costruzioni istituzionali fasciste (nel tempo lasciato libero dalle emergenze belliche), mentre al Nord perché ancora in elaborazione e quindi del tutto in fieri un eventuale sistema costituzionale, cui del resto mai si sarebbe data vita. Non vi era nemmeno rappresentanza (non solo parlamentare), né tantomeno si poteva prendere in considerazione la mera ipotesi di indire elezioni.Ciò malgrado, al Sud la caduta del fascismo aprì la strada alla possibilità di formazione, o di ricostituzione, di partiti liberi, abbattuto il divieto dittatoriale (quasi non interrottosi al Nord, nella subito costituita RSI). Si riaddensarono, intorno ad alcune figure storiche o carismatiche, nuclei politici che avrebbero dato nuova vita a partiti prefascisti e movimenti nuovi (compresi quelli che si erano formati o che avevano avuto sviluppo in clandestinità ), pian piano riorganizzandosi in entità politiche idonee ad assumere la funzione loro propria di indirizzo della vita pubblica, ma non mancarono le difficoltà e vi erano problemi insuperabili come la rappresentativià , e soprattutto la rispettiva proporzione di rilevanza fra le forze.

Il problema della rappresentatività:

Le nuove formazioni (comprese le rinate prefasciste), per quanto velocemente riorganizzate con strutture adeguate, non potevano presentarsi al confronto delle idee con il sostegno di un qualsiasi segno di delega politica, non avevano cioè¨ nessuna documentata prova di rappresentare alcuno: non essendosi tenute elezioni, non si sapeva quale fra i partiti potesse disporre del seguito più importante presso la cittadinanza. Ciò costituiva evidentemente un limite estremamente grave della vita politica italiana, che non offriva maggiori contributi di un mero dibattito ideologico teorico. Questo però fu valutato comunque positivamente rispetto alla precedente assenza assoluta di dibattito: il fermento era qualcosa di più del nulla, sebbene la vita nazionale fosse tuttora decisa dagli ambienti militari.I partiti che poi avrebbero dato vita alla Repubblica, va notato, unanimemente prospettavano il completamento dell'eradicazione del fascismo, la lotta alla Germania nazista e la riacquisizione dei territori del Nord, (soggetti alla RSI), alla giurisdizione nazionale del cosiddetto "Regno del Sud". Il comune progetto riguardava una Penisola antifascista, sotto un sistema politico almeno non contrastante con gli schemi imposti dalle forze alleate. Non vi erano al Sud sostenitori dell'idea fascista organizzati in partiti (o almeno non ebbero - o non intesero avere - alcuna visibilità ), restando loro solo la strada dell'arruolamento volontario nelle forze della RSI o filo-fasciste, fra le quali un certo seguito ebbe la Xª Flottiglia MAS, che pure, almeno in quella fase, cercò di tenersi discosta dalle ideologie, richiamandosi piuttosto a tematiche di onore nazionale e rifuggendo dal "voltafaccia" in cui sintetizzavano la non limpida condotta badogliana.Al Nord, invece, gli oppositori erano coloro che desideravano sopprimere l'idea fascista, e che non potendosi, analogamente, aggregare in formazioni politiche, ebbero la sola scelta di collaborare con la nascente lotta partigiana. Ed uno degli ambiti in cui il problema della rappresentatività dei partiti italiani fu più stringente, fu proprio quello della lotta partigiana, nella quale concorrevano a comporre le forze coordinate dal Comitato di liberazione Nazionale (CLN); era questo, effettivamente, l'unico ambito nel quale lo spontaneismo, che i partiti andavano per necessità coltivando, poteva esprimersi con evidenze fattuali, poiché nella lotta popolare in armi contro il nazi-fascismo si situava l'obiettivo concreto del momento, l'intento più concretamente attuabile, usando i vasti spazi lasciati liberi dall'esigua azione governativa, ormai sottoposta a sommessa gerarchia alleata dall'armistizio e privata della forza militare dallo sbando.Nel CLN, che si organizzava come forza armata spontanea, si ebbero naturalmente diversità di vedute e di interpretazioni circa le azioni da compiere ed il modo di realizzarle. Non solo a livello di tattica, ma anche, e più profondamente, a livello di strategia. Ció anche perché, intravistane l'utilità potenziale, le nazioni dell'alleanza (che amavano chiamarsi "Nazioni Unite") separatamente fra loro cercarono di influenzare l'andamento di tutta questa potenza militare, ciascuno secondo le proprie prospettive almeno di medio termine. La maggior parte delle componenti partigiane fu infiltrata da agenti stranieri, e le fratture fra le varie componenti (vi fu una "resistenza bianca", di tendenza cattolica e meglio vista dagli americani, e ve ne fu una "rossa", di tendenza comunista e meglio vista dai sovietici - tutte equanimemente infiltrate di agenti inglesi) furono sempre ricucite con la forza dei nervi in sede di dirigenza del CLN. Anche il Comitato, però, ebbe momenti di scarsa serenità con il CLNAI, la sua divisione per l'Alta Italia.Una sorta di pseudo-legittimazione pareva perciò venire dall'eventuale supporto ricevuto, per minimo o simbolico o anche casuale che fosse, dalle potenze straniere, il cui "riconoscimento" veniva enfatizzato, spesso come presunta prova a sè bastante. Ma la sostanza non cambiava, non vi erano ragioni per poter considerare un partito più importante di altri e ciascuna idea valeva le altre. Quando perciò prese corpo l'idea avanzata dal Partito Repubblicano di discutere la forma dello stato (ovviamente per modificarla nel senso che dava nome al movimento) come condizione preliminare per la collaborazione in seno al CLN, pur non prevedendosi una grande rappresentatività futura del partito (mentre ne era inalterato, e forse accresciuto, il prestigio storico), si aprì comunque una questione che rischiò di frastornare una già labile alleanza fra compagini di molto diverse.

La corona in discussione:

La maggior parte dei partiti già attribuiva in effetti alla monarchia, ed a Vittorio Emanuele III in particolare, la responsabilità di aver appoggiato il fascismo e quindi anche la responsabilità di aver coinvolto l'italia in una guerra disastrosa; ciò malgrado, alcuni in quel momento non reputavano utile nè sostenibile con le forze del momento, aggiungere altri obiettivi quando la lotta in corso era già tanto difficoltosa.Qualcuno, più lungimirante, scorse anche la nitidezza del rischio che l'abbattimento dell'ultima istituzione, almeno formalmente perpetuante una parvenza di unitarietà , lasciasse il Paese privo di fattore legante, smembrato, possibile ed appetibile oggetto di spartizioni regionali da parte delle forze alla fine vittoriose.La situazione venne ad una svolta nel 1944 quando Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano propose, in un discorso passato alla storia come "svolta di Salerno", di accantonare la questione istituzionale fino alla fine della guerra. A questa soluzione convennero tutti i partiti, corroborati da una coerente sollecitazione delle (concordi) potenze alleate ed ovviamente, per quel che ancora poteva valere d'influenza, della Corona. Il PRI, obtorto collo, si adeguò, se non alla maggioranza, alla preponderanza.La posposizione fu "barattata" con la richiesta di estromissione di Vittorio Emanuele dalla politica diretta, e fu istituita la "luogotenenza", con la quale un soggetto non compromesso con il recente passato avrebbe rappresentato la Corona; fu Umberto II di Savoia, erede al trono, di immediato generale gradimento.La LuogotenenzaCon questo nuovo istituto, i poteri regi sarebbero stati gestiti da Umberto, con il titolo di Luogotenente generale del Regno.L'accordo, in realtà , prevedeva anche che Vittorio Emanuele III non avrebbe abdicato (ma un simile atto era in verità richiesto da più parti e valutato positivamente anche da una parte dei monarchici), fino alla definizione della questione istituzionale.L'accoglimento della proposta togliattiana permise di formare un governo in parte idealmente rappresentativo del CLN e che quindi fu presentato come munito, in qualche modo, di un abbozzo di legittimazione democratica.

Questione monarchia/repubblica:

Anche se temporaneamente accantonata, la questione su quale forma avrebbe dovuto assumere lo stato italiano dopo la fine della guerra rimase uno dei maggiori problemi politici aperti. La maggior parte delle forze che sostenevano il CLN erano apertamente repubblicane, sia per impostazione politica di fondo, sia perché imputavano alla monarchia, ed in modo particolare a Vittorio Emanuele III, la responsabilità di aver permesso al fascismo di affermarsi, di governare l'Italia per venti anni e di averla coinvolta in una disastrosa guerra di aggressione.L'idea repubblicana, in Italia, aveva avuto il suo antesignano in Giuseppe Mazzini, uno dei propugnatori dell'unità d'Italia nel XIX secolo e proprio agli ideali mazziniani si ricollegava il movimento Giustizia e Libertà, nato per opera dei fratelli Rosselli nell'ambito dell'opposizione clandestina al fascismo, che rappresentava, nel 1944/1945, la seconda, per rilevanza desumibile dal collegamento con le unità partigiane, forza del CLN (il partito politico collegato al maggior numero di formazione partigiane era il partito comunista italiano).L'accordo conclusivo fu di indire, al termine della guerra e non appena le condizioni generali lo avessero reso possibile, un referendum sulla forma dello stato. Insieme a questo referendum, sarebbe anche stata indetta una votazione per eleggere un'assemblea che avrebbe avuto il compito di redigere una nuova carta costituzionale. Una parte dei sostenitori della monarchia premeva affinché Vittorio Emanuele III abdicasse, in modo da poter giungere al referendum con a capo del paese una figura non compromessa con il precedente regime. Il figlio di Vittorio Emanuele, Umberto, oltre che godere di una certa popolarità anche consolidata dal fascino personale, si era tenuto abbastanza defilato durante la guerra e questo faceva sperare che potesse recuperare alla causa monarchica parte del consenso perduto.

Il referendum del 1944:

Il decreto luogotenenziale n 151 del 25 giugno 1944, emanato durante il governo Bonomi, tradusse in norma l'accordo che al termine della guerra fosse indetta una consultazione fra tutta la popolazione per scegliere la forma dello stato ed eleggere un'assemblea costituente.L'attuazione del decreto dovette attendere che la situazione interna italiana si consolidasse e chiarisse: nell'aprile 1945 (fine della guerra) l'Italia era un paese sconfitto, occupato da truppe straniere, possedeva un governo che aveva ottenuto la definizione di cobelligerante ed una parte della popolazione aveva contribuito a liberare il paese dall'occupazione tedesca. Solo nella primavera dell'anno successivo fu possibile accelerare l'attuazione del decreto sul referendum.La campagna elettorale fu contrassegnata da incidenti e polemiche, soprattutto al Nord, dove i monarchici ebbero a scontrarsi sia con i repubblicani che con i "repubblichini" appena sconfitti. Allo scopo di garantire l'ordine pubblico venne creato, a cura del Ministero dell'Interno, diretto dal socialista Giuseppe Romita, un accessorio corpo della Polizia Ausiliaria, che ebbe discutibili forme di arruolamento (per lo più discrezionali) e che venne accusato dai monarchici di aver favorito alquanto apertamente la causa repubblicana.

Il suffragio universale:

Il 31 gennaio del 1945, con l'Italia divisa ed il Nord sottoposto all'occupazione tedesca, il Consiglio dei Ministri, presieduto da Ivanoe Bonomi, emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne (Decreto legislativo luogotenenziale 2 febbraio 1945, n. 23). Venne così riconosciuto il diritto al suffragio universale, dopo i vani tentativi fatti nel lontano 1881 e nel 1907 dal movimento femminista ispirato da Maria Montessori (la prima donna laureata in medicina in Italia).Il 2 giugno del 1946 le donne votarono per il Referendum istituzionale e per le elezioni dell'Assemblea costituente, ma già nelle precedenti elezioni amministrative avevano esercitato il loro diritto all'elettorato attivo e passivo, risultando in numero discreto elette nei consigli comunali.

Cronologia del referendum:

La primavera del 1946 fu dominata dall'accelerazione del dibattito politico sul tema istituzionale. 1 marzo - il governo presieduto da Alcide De Gasperi avviò le procedure per la realizzazione del referendum istituzionale, perfezionando il relativo disegno di legge, nel quale si stabilì il quesito da sottoporre al voto, direttamente e chiaramente "monarchia o repubblica". Il 12 marzo - il referendum fu indetto per i giorni 2 e 3 giugno dello stesso anno e furono convocati i comizi (decreto luogotenenziale n° 98). 16 marzo - Umberto di Savoia firmò il decreto luogotenenziale n°98 che indisse il referendum. Nello stesso giorno, furono rese pubbliche alcune dichiarazioni di Vittorio Emanuele, che annunciò di voler abdicare. 25 aprile - al congresso della Democrazia Cristiana, Attilio Piccioni rivelò che, dopo un'inchiesta interna, l'opinione degli iscritti al partito risultava così ripartita: 60% a favore della repubblica, 17% a favore della monarchia, e 23% indecisi. 9 maggio - Vittorio Emanuele lasciò l'Italia partendo dopo il tramonto da Napoli, in nave, dopo un lungo incontro con Umberto. 10 maggio - di prima mattina, Umberto annunciò l'avvenuta abdicazione del padre e la sua assunzione del titolo di Re d'Italia. Il pomeriggio dello stesso giorno, il governo protestò vibratamente perché l'ammiraglio De Courten, per trasportare Vittorio Emanuele verso l'esilio, aveva utilizzato una nave destinata al rimpatrio degli ex-prigionieri di guerra italiani. 2 giugno - si tenne il referendum istituzionale 4 giugno - fonti vicine ai Carabinieri anticiparono a papa Pio XII la vittoria della monarchia 5 giugno- il ministero dell'Interno comunicò, ufficiosamente, che la repubblica aveva vinto. I monarchici sollevarono presso la Corte di Cassazione una serie di ricorsi 12 giugno - In base al primo pronunciamento, ancora ufficioso, della Corte il governo decise di trasferire i poteri al primo ministro Alcide de Gasperi, che assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato. 13 giugno Umberto di Savoia, dopo aver rivolto un proclama agli italiani, in cui contestava i risultati del referendum, partì in aereo per Lisbona. 18 giugno - la Corte di Cassazione proclamò i risultati definitivi del referendum e confermò la vittoria della repubblica.

I risultati:

Gli aventi diritto al voto risultavano essere 28.005.449. I votanti furono 24.947.187 corrispondenti all' 89,1%. I risultati ufficiali del referendum istituzionale furono: repubblica voti 12.718.641[1] pari al 54,3%; monarchia voti 10.718.502[1] pari al 45,7%; voti nulli 1.498.136.[2]Analizzando i dati regione per regione, si nota come l'Italia si fosse praticamente divisa in due: il nord dove la repubblica aveva vinto con il 66,2% ed il sud dove la monarchia aveva vinto con il 63,8%.

Analisi dei risultati:

I risultati del voto furono, anche per i vincitori, inferiori alle aspettative.Nelle numerose iniziative analitiche cui i risultati sono stati, nel tempo, sottoposti, si sono evidenziati alcuni punti di interesse, tradotti però in conclusioni di indirizzo divergente. Sono state proposte interpretazioni sociologiche e statistiche del voto, che avrebbero intravisto influenze della condizione economica del momento, dell'ingresso dell'elettorato femminile, o da molti altri fattori.Altra tesi sostenuta da alcuni è che la causa delle preferenze tra monarchia e repubblica fosse da ricercarsi in una differenziazione sociale: i ceti più istruiti sarebbero stati repubblicani mentre quelli dove l'analfabetismo era maggiore avrebbero avuto una preferenza per il campo monarchico. Questa tesi che cercava di far leva sulla contrapposizione tra città -proletariato industriale (di norma dotato comunque di una istruzione maggiore) e campagna-proletariato contadino non trova ormai sostenitori.Alcuni analisti, del campo repubblicano e di quello monarchico affermarono anche che la repubblica avrebbe potuto ricevere un minimo vantaggio dal voto femminile, fortemente voluto dalla sinistra perché nelle aspettative di quella parte le donne sarebbero state più sensibili all'equazione, enfatizzata in propaganda, «monarchia=guerra, repubblica=pace».Risultati particolariIl dato del Trentino, ove la repubblica aveva ottenuto una vittoria schiacciante (85%) fu interpretato con l'avversione delle popolazioni di lingua tedesca della regione per la politica nazionalistica del fascismo, da loro identificato con la monarchia. Anche il mancato rientro di parte dei soldati inquadrati nei reparti di alpini venne invocato come concausa della sconfitta monarchica. La possibilità che, per le condizioni dell'istruzione, vi sia stata confusione nei termini (la RSI era una «repubblica») È stata avanzata, ma senza incontrare gran seguito.Tra le regioni del nord stupì il voto del Piemonte, regione storicamente legata alla casata dei Savoia dove la repubblica aveva vinto con il 56,9%.La regione dove si ebbe la maggior percentuale di voti nulli fu la Valle d'Aosta, territorio storicamente legato alla Casa sabauda.L'Italia divisa in dueDai dati del voto, l'Italia risultò divisa in sud monarchico ed un nord repubblicano. Le cause di questa netta dicotomia possono essere ricercate nella differente storia delle due parti dell'Italia dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943.Per le regioni del Sud la guerra finì appunto nel 1943, con l'occupazione alleata e la progressiva ripresa del cosiddetto Regno del Sud, che grazie agli aiuti stranieri ed all'allontanamento del fronte aveva riguadagnato una certa tranquillità ed un certo benessere.Per contro, il Nord dovette vivere quasi due anni di occupazione tedesca e di lotta partigiana (contro appunto i tedeschi ed i fascisti della RSI) e fu l'insanguinato teatro della guerra civile (che ebbe echi protrattisi anche molto dopo la cessazione formale delle ostilità). Le forze più impegnate nella guerra partigiana facevano capo a partiti apertamente repubblicani (partito comunista, partito socialista, movimento Giustizia e Libertà ).

Il sospetto di brogli elettorali:

I monarchici attribuirono la loro sconfitta a brogli elettorali ed a scorrettezze nella convocazione dei comizi e nello svolgimento del referendum.Tra le questioni giudicate irregolari, quelle più rilevanti, secondo i monarchici, furono: molti prigionieri di guerra si trovavano ancora all'estero e quindi impossibilitati a votare, il referendum sarebbe quindi stato indetto intenzionalmente senza attenderne il rientro; parte delle province orientali (Trieste, Gorizia e Bolzano) non erano ancora state restituite alla sovranità italiana, e quindi, non potendo prender parte alla votazione un numero di potenziali elettori superiore allo scarto effettivamente registrato, il risultato era da considerarsi parziale; il clima di violenza durante la campagna elettorale aveva indebolito la campagna monarchica (la Polizia Ausiliaria fu accusata di aver duramente contribuito a questa situazione); i primi risultati pervenuti, indicavano una netta prevalenza di voti pro-monarchia; improvvisamente, dopo che anche al Papa era stato comunicato l'andamento, e dopo che lo stesso De Gasperi aveva telefonato al ministro della Real Casa per anticipare la sconfitta dei repubblicani, la situazione stranamente cambiò di colpo; Analisi statistiche,[senza fonte] fornite dai monarchici, avrebbero poi evidenziato come il numero dei voti registrati fosse largamente superiore a quello dei possibili elettori. Nel disordine generale seguito alla guerra, pare non impossibile che un numero consistente di votanti possa aver usato documenti d'identità falsi.I monarchici presentarono numerosi reclami giudiziari, che vennero però respinti dalla Corte di Cassazione.Stime monarchiche[senza fonte] valutano in circa tre milioni i voti che andarono persi per diverse ragioni, numero maggiore della differenza tra l'opzione repubblicana e quella monarchica.

Ragioni della sconfitta della monarchia:

Una causa che portò alla sconfitta della monarchia fu probabilmente la figura di Vittorio Emanuele III, considerato un debole e non in grado di gestire gli avvenimenti cui si trovò di fronte. Le ragioni non erano nè poche, nè di poco conto. Fra tutte, nel 1922 il comportamento della casa regnante era stato determinante per l'ascesa del fascismo, e nel 1938, Vittorio Emanuele III aveva promulgato le leggi razziali. Queste leggi furono molto impopolari fra gli italiani, che non avevano alcuna tradizione di antisemitismo, e provocarono numerosi suicidi di ufficiali ebrei, che si spararono per l'onore di morire nell'uniforme prima di essere degradati o congedati.Le vicende della seconda guerra mondiale non aumentarono di certo le simpatie verso la monarchia anche a causa degli atteggiamenti discordanti di alcuni membri della casa regnante. La moglie di Umberto, la principessa Maria José¨, cercó nel 1943, attraverso contatti con le forze alleate, di negoziare una pace separata muovendosi al di fuori della diplomazia ufficiale. Queste manovre, anche se apprezzate da una parte del fronte antifascista, furono viste in campo monarchico come un tradimento ed all'esterno, insieme alle prese di distanza ufficiali del Quirinale, come sintomi di profondi contrasti in seno alla casata dei Savoia, della quale evidenziavano l'irresolutezza.Anche la decisione di Vittorio Emanuele III di abbandonare Roma, e con essa l'esercito italiano che venne lasciato privo di ordini, per rifugiarsi nel sud subito dopo la proclamazione dell'armistizio di Cassibile, atto che fu visto come una vera e propria fuga, non migliorò certo la fiducia degli italiani verso la monarchia.

Conseguenze del referendum:

Umberto di Savoia lasciò l'Italia subito dopo il referendum, pur non riconoscendone la validità e rifiutandone i risultati; non rinunciò mai ufficialmente alla corona, sebbene vada crescendo di credito l'ipotesi che la scelta di non avallare la reazione forzosa dei monarchici sia stata effettivamente intesa pro bono pacis. Prima di partire, affidò agli italiani la Patria e li sciolse (ciò che riguardava principalmente i militari) dal giuramento di fedeltà al Re. La nuova costituzione repubblicana, elaborata dall'assemblea eletta in contemporanea al referendum, venne integrata con alcune disposizioni transitorie tra cui la XIII, che prescriveva il divieto di entrare in Italia per i discendenti maschi di Umberto. Questa disposizione fu abolita nell'ottobre 2002, dopo un dibattito in parlamento e nel Paese durato molti anni e Vittorio Emanuele, figlio di Umberto, potè entrare in Italia con la sua famiglia nel dicembre successivo per una breve visita, che si rivelerà poi ben presto non avere solo un fine di carattere turistico nostalgico. Infatti nell'ottobre del 2007 i Reali di Casa Savoia, rivendicano al Governo Italiano non solo parte dei beni ad essi avocati, ma una clamorosa richiesta di risarcimento danni per un esilio di 54 anni.

Nascita della repubblica (sintesi):

Il 2 giugno 1946 gli italiani e per la prima volta le italiane, furono chiamati a un referendum per decidere se l’Italia dovesse rimanere una monarchia, oppure se essa dovesse essere sostituita dalla repubblica. Vinse quest’ultima con il 52% dei voti. Quello stesso giorno il popolo italiano fu chiamato anche a eleggere un'Assemblea Costituente, che aveva il compito di scrivere la nuova Costituzione. All’interno dell’Assemblea si affermarono tre partiti: la Democrazia Cristiana, con il 35% dei voti, il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista Italiano. Il Partito d’Azione invece ebbe solamente l’1.5% dei voti, motivo per il quale decise di sciogliersi.Il 25 giugno 1946 cominciò ufficialmente i lavori l'Assemblea Costituente con Giuseppe Saragat alla presidenza. Nel dicembre 1947 si terminò di scrivere la costituzione italiana, che entrò in vigore il primo gennaio 1948. Questa costituzione faceva dell'Italia una repubblica parlamentare. Massima carica dello Stato era ed è il Presidente della Repubblica, eletto per via parlamentare, per la durata di sette anni. Ad egli furono affidati ruoli soprattutto rappresentativi, come rappresentate dell'unità del territorio e capo dell'esercito. Il potere legislativo venne affidato a un parlamento bicamerale suddiviso in Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, svolgendo i loro ruoli in modo paritario e separato. Tale parlamento ha durata di 5 anni.Tra le altre cose, la costituzione vietava la ricostituzione del disciolto Partito Nazionale Fascista. Tuttavia, il 26 dicembre 1946, reduci della Repubblica Sociale Italiana avevano costituito il Movimento Sociale Italiano. Fondatore era Giorgio Almirante.Il primo Presidente del Consiglio dei Ministri fu Alcide De Gasperi, della Democrazia Cristiana.Travagliata era la questione del Sud Tirolo: le potenze vincitrici lo assegnarono all'Italia, nonostante ciò qui vi era una consistente parte di popolazione di lingua tedesca. Nel settembre 1946 Alcide De Gasperi, che oltre ad essere Presidente del Consiglio, era anche ministro degli esteri, trovò una soluzione con il collega ministro degli esteri austriaco Karl Gruber: egli costituò la regione a statuto speciale del Trentino-Alto Adige, dotata di ampie autonomie e dove affianco all'italiano, a livello regionale, fu ufficializzato anche il tedesco.Nel frattempo erano stati firmati nel 1947 i Trattati di Parigi con i quali formalmente e definitivamente fu siglata la pace con le potenze alleate e vennero sancite le conseguenze dell'ingresso e sconfitta nella Seconda guerra mondiale, con mutilazioni nazionali territoriali: l'Istria e la Dalmazia cedute alla nascente Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia, il Dodecaneso alla Grecia, il colle di Briga ed il colle di Tenda alla Francia, l' Isola di Saseno all' Albania, il pagamento dei danni di guerra alla URSS e la perdita di tutti i possedimenti coloniali italiani.

Questo fu un periodo particolarmente felice per la letteratura italiana ed ancor di più per il cinema. Furono gli anni del neorealismo.

PRESO DA: http://www.festadellarepubblica.it/litalia-repubblicana/la-nascita-della-repubblica/42-la-nascita-della-repubblica-italiana/64-il-2-giugno-1946-nasce-la-repubblica-italiana.html

martedì 8 febbraio 2011

IL RAPPORTO ITALIA A DUE VELOCITA' Crescono gli emigranti, 700 mila dal Sud al Nord

Napolitano: «Lo squilibrio deve essere corretto»

ROMA - Le valigie di cartone non ci sono più ma i numeri sono sempre quelli. Solo nel 2008 sono stati 122 mila gli italiani che si sono trasferiti dal Sud al Nord del Paese in cerca di lavoro. Un numero in leggera crescita rispetto all' anno precedente, quando erano stati 116 mila, ma sostanzialmente stabile rispetto al passato. Certo, c' è anche chi torna indietro: sempre nel 2008 altre 56 mila persone hanno fatto il percorso inverso rientrando nel Mezzogiorno magari per godersi la pensione. Ma non compensano nemmeno la metà di quel flusso inarrestabile che da anni svuota i paesini di Campania e Sicilia per affollare le città di Lombardia e Veneto. Un flusso inarrestabile Negli ultimi 11 anni, considerando partenze e rientri, il Sud ha perso a favore del Nord 700 mila persone. Come se a fare le valigie fosse stata l' intera città di Genova con l' aggiunta di La Spezia. Se risaliamo le tabelle e torniamo indietro fino al 1955, superiamo addirittura i 4 milioni. Questa volta a fare le valigie sarebbero gli abitanti di Milano e Roma messe insieme. E questo considerando solo chi cambia residenza e non i cosiddetti pendolari a lungo raggio: persone che conservano la residenza a Napoli o Palermo ma lavorano al Nord o all' estero. E tornano a casa, dove magari hanno lasciato la famiglia, un paio di volte al mese. Sempre nel 2008 questi pendolari a lungo raggio sono stati 173 mila. E anche loro sono in crescita rispetto all' anno precedente, di oltre il 15%. Un Paese spaccato Di questione meridionale si parla da quasi 150 anni, la prima volta in Parlamento nel 1873 quando l' unità d' Italia era ancora fresca. Ma il «Rapporto sull' economia del Mezzogiorno 2009» presentato ieri dallo Svimez, l' Associazione per lo sviluppo dell' industria del Mezzogiorno, dimostra che siamo ancora fermi lì: un «Paese spaccato in due sul fronte migratorio», scrivono i ricercatori. Con un «Centro Nord che attira e smista flussi al suo interno» ed un Sud che «che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarli». Due Paesi in uno, un' immagine che preoccupa il capo dello Stato: «Deve crescere nelle istituzioni così come nella società - dice Giorgio Napolitano - la coscienza che il divario tra Nord e Sud deve essere corretto». E questo vuol dire che una «prospettiva di stabile ripresa del processo di sviluppo deve essere fondata sul superamento degli squilibri territoriali». Fuori dalla crisi senza più persone costrette a lasciare la loro terra per lavorare. Ma l' emigrazione non è che il risultato di un Paese che viaggia a due velocità. In tutto. Il Pil è un indicatore troppo freddo per cogliere le differenze: nel 2008 è sceso dell' 1 per cento al Centro Nord e solo un po' di più, 1,1 per cento, al Sud. Ma sono sette anni di fila che c' è questa differenza, nel dopoguerra non era mai successo. I dati sull' occupazione già aiutano di più: nel 2008 il numero degli occupati è salito di 217 mila unità al Nord ed è sceso di 34 mila al Sud. Nella classe d' età fra i 15 ed i 24 anni la disoccupazione è arrivata al 14,5 per cento al Nord e addirittura al 33,6 al Sud. Troppa burocrazia Di infrastrutture neanche a parlarne: al Sud c' è una sola autostrada a tre corsie, il 7,8 per cento delle linee ferroviarie ad alta velocità. Ed anche l' acqua è un guaio serio: gli acquedotti sono ridotti così male che in Puglia se ne perde lungo le tubature addirittura il 46 per cento. La metà di quella messa in rete, contro una media nazionale che comunque è di un terzo. Anche per la pubblica amministrazione sono dolori: è vero che in Italia per progettare e affidare i lavori di una grande opera servono in media 900 giorni. Ma si va dai 583 giorni della Lombardia ai 1.100 della Campania, fino ai 1.582 della Sicilia. Più di quattro anni. Meno investimenti Non è un caso che proprio al Sud gli investimenti industriali siano scesi molto più che nel resto del Paese: del 2,1 per cento annuo dal 2001 al 2008, contro lo 0,6 per cento delle regioni settentrionali. E non sorprende nemmeno che sempre nel Mezzogiorno le famiglie abbiano ridotto i consumi più che altrove: meno 1,4 per cento contro meno 0,9. È vero, in ogni Paese ci sono zone ricche e zone povere, ma il guaio vero è che da noi questo solco si allarga sempre più. Dal 1995 al 2005 le nostre regioni meridionali sono sprofondate nella classifica europea della ricchezza, perdendo in media una trentina di posizioni e andandosi a piazzare tra il 165/mo e il 200/mo posto su un totale di 208. In quel periodo le altre aree deboli dell' Unione europea sono cresciute del 3 per cento l' anno, il nostro Mezzogiorno solo dello 0,3. Ci sono anche dati in controtendenza, ad esempio sull' export: nel 2008 le merci vendute all' estero dalle regioni del Sud sono cresciute del 3,2 per cento, grazie soprattutto ai derivati del petrolio, contro un calo dello 0,6 per cento nel resto del Paese. Ma è solo un' eccezione. La regola è sempre quella, la valigia pronta. Lorenzo Salvia I dati Il rapporto Il documento dello Svimez (associazione per lo sviluppo dell' industria del Mezzogiorno) fotografa le differenze economiche fra Nord e Sud Il numero Fra le cifre più significative spicca il fatto che negli ultimi 11 anni il numero dei residenti al Sud è diminuito di 700 mila Burocrazia È stato calcolato che per affidare i lavori di una grande opera servono in media 583 giorni in Lombardia, 1.582 in Sicilia Lavoro Per i giovani fra i 15 e i 24 anni il tasso di disoccupazione è al 14,5% al Centro-nord, 33,6% al Sud

Salvia Lorenzo

Istat: stranieri dal Sud al Nord per trovare lavoro, come gli italiani

Fonte: www.redattoresociale.it
I dati sul movimento migratorio degli stranieri nel 2009 evidenziano che il Mezzogiorno rappresenta l’area del primo ingresso, ma è nelle regioni del Nord che si va alla ricerca di opportunità
ROMA – I dati sul movimento migratorio degli stranieri nel 2009 evidenziano che in molti casi il Mezzogiorno rappresenta l’area del primo ingresso, il punto di partenza di un percorso che vedrà molti immigrati trasferirsi successivamente verso le regioni del Nord, nelle quali è possibile trovare maggiori opportunità di lavoro. Lo rileva l’Istat nell’annuale indagine sulla popolazione straniera. Considerando il saldo con l’estero nelle diverse ripartizioni si osserva, infatti, che nel 2009 il tasso per mille residenti stranieri assume valori piuttosto diversificati. Il livello più elevato si registra nelle Isole (126,8 per mille) e nel Sud (125,9 per mille). Il Nord e il Centro presentano valori più bassi (84,1 per mille il Nord-ovest, 80,5 per mille il Nord-est e 98,3 per mille il Centro).

Viceversa, se si considera il saldo migratorio interno degli stranieri per mille abitanti è il Centro-nord a risultare una zona attrattiva: nel 2009 il saldo è positivo nel Nord ovest (+4,7 per mille), nel Nord est (+2,6 per mille) e nel Centro (+1,5 per mille). Il saldo è invece negativo nel Sud (-2,3 per mille) e nelle Isole (-1,5 per mille). Si tratta di una tendenza che si era già manifestata negli anni precedenti e che fa ipotizzare l’esistenza di un certo numero di trasferimenti di residenza di stranieri dal Mezzogiorno al Nord, lungo una direttrice che, anche se con minore intensità, appare la medesima seguita dalla popolazione italiana. Nel 2009 il saldo interno degli stranieri per i comuni capoluogo torna ad essere positivo (1,3 per mille), evidenziando una maggiore propensione a risiedere nei comuni capoluogo rispetto alla popolazione italiana. La quota di stranieri residenti nei comuni capoluogo a fine 2009 è, infatti, pari a 36,4%; quella riferita agli italiani è 28,7%.

Preso da: http://www.migrantitorino.it/?p=8978

Immigrazione. In Italia gli stranieri regolari sono circa cinque milioni

L'Italia - dati alla mano - non può fare a meno di confrontarsi con un fenomeno dal quale ci guadagna: gli immigrati producono l'11% del Pil, sono il 10% dei lavoratori dipendenti e il 3,5% di imprenditori, forniscono risorse vitali per l'Inps (7 miliardi l'anno), regalano al fisco un miliardo perché pagano di più di quanto ricevono in servizi


ROMA. Sono quasi cinque milioni gli stranieri regolari in Italia, il 7% dei residenti. Vent'anni fa, erano meno di 500 mila. E' un numero, quindi, importante ed in salita che però non va di pari passo con il sentimento di accoglienza degli italiani che mostrano "ostilità, compiono spesso atti di discriminazione ed anche di razzismo". E' anche un atto di denuncia su un clima negativo ai danni degli immigrati, il 20/o rapporto della Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, presentato ieri dal titolo "Per una cultura dell'altro", che contiene un ricordo di monsignor Luigi Di Liegro, un "indimenticabile amico degli immigrati". Il clima ostile in cui si cala l'immigrazione risente anche della crisi ma non solo, è stato sottolineato alla presentazione del volume che, contrariamente al passato, ha registrato l'assenza delle istituzioni. Un'assenza commentata con "disappunto" dagli organizzatori che hanno dovuto incassare, in particolare, il rifiuto all'invito dai ministri Tremonti e Maroni. Ha dato forfait all'ultimo momento anche la governatrice del Lazio Renata Polverini, attesa come da programma. Lo scorso anno - tanto per fare qualche esempio degli ultimi anni - intervenne il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, e due anni fa il ministro del welfare, Maurizio Sacconi. Alla presentazione del dossier partecipò anche Romano Prodi quando era premier.

- IL RAPPORTO: L'Italia - dati alla mano - non può fare a meno di confrontarsi con un fenomeno dal quale ci guadagna: gli immigrati producono l'11% del Pil, sono il 10% dei lavoratori dipendenti e il 3,5% di imprenditori, forniscono risorse vitali per l'Inps (7 miliardi l'anno), regalano al fisco un miliardo perché pagano di più di quanto ricevono in servizi. E poi: ogni giorno 70 italiani si sposano con cittadini stranieri; 173 immigrati prendono la cittadinanza italiana; 211 neonati nascono da genitori non italiani. Ogni 14 persone che si incontrano per strada uno è straniero.

L'apporto degli stranieri, sia per il sostegno demografico (13% delle nascite) sia per l'incidenza nell'economia è un dato incontrovertibile tanto che il dossier si dice convinto che "potranno permettere all'Italia di uscire dalla fase di stanchezza in cui si trova".

Vanno però avviate politiche per l'integrazione ed investimenti; a riguardo, è stato detto, l'Italia prenda esempio dalla Germania.

- UN RESIDENTE SU 12 E' STRANIERO. Il dossier stima in 4.919.000 gli immigrati. Uno su 4 vive in Lombardia. Il 21% sono romeni, l'11% albanese, il 10,2% marocchini. La maggior parte degli stranieri sono europei (53,6%) e africani (22%). Emilia Romagna, Lombardia e Umbria superano il 10% di presenza straniera. Dieci matrimoni su 100 sono misti.

- QUASI 600 MILA SONO NATI IN ITALIA. Il 13% degli stranieri sono di seconda generazione. Gli iscritti a scuola sono 673.592 (7,5% degli studenti). In genere i minori sono il 22%.

- IRREGOLARI IN CALO, ARRIVI ILLEGALI VIA TERRA. Si stima che i clandestini siano 500-700 mila, in calo (lo scorso anno se ne stimavano un milione). Le entrate illegali sono per lo più via terra e non sulle coste; il record di sbarchi è avuto nel 2008 quando giunsero 37 mila persone.

- STRANIERI ASSICURANO 11 MLD DI ENTRATE. Le spese per servizi invece non arrivano a 10 miliardi. La retribuzione media annuale é 12.000 euro, i contributi quasi 4.000 euro.

- 18.400 STRANIERI ALLONTANATI. Nel 2009 ci sono stati 4.298 respingimenti e 14.063 rimpatri forzati. Gli irregolari che non hanno rispettato l'ordine di espatrio sono stati 34.462. Le persone nei Cie sono state 10.913.

- LA POSIZIONE DEL VATICANO: "Purtroppo - afferma mons. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti - prevale l'egoismo fra la gente. Viviamo in un castello dorato e non vogliamo il disturbo di altri, abbiamo un atteggiamento profondamente egoista e non cristiano".

- I COMMENTI: I dati del dossier "affossano la politica del governo" dice l'Idv. "L'immigrazione - per la Cisl - è un'esigenza per l'Italia. Il governo riconosca questo contributo e non usi solo la repressione".

Per Giuliano Cazzola, deputato del Pdl, "ci ostiniamo ad ignorare" i dati positivi dell'immigrazione "perché molto scomodi". Secondo la Cgil è ora di fermare la politica delle repressioni.


Preso da: http://www.americaoggi.info/2010/10/27/21271-immigrazione-italia-gli-stranieri-regolari-sono-circa-cinque-milioni